Nel 1703 un'ampia zona dell'Italia centrale è
devastata da una serie di terremoti generati dalla dinamica della catena
appenninica, che periodicamente rilascia energia sismica accumulatasi su tempi
lunghi. Il quadro tettonico generale del nostro paese, complicato dalle
articolate strutture geologiche e dalla segmentazione delle sorgenti
sismogenetiche, si caratterizza per lo scontro tra la placca africana ed
euroasiatica, di cui l'Appennino rappresenta la zona di collisione. In questo
contesto sismo-tettonico si inserisce la grande sequenza sismica del 1703,
sviluppatasi tra la metà di gennaio ed i primi di febbraio, a cominciare
dall'area nursina, a cavallo tra Umbria e Lazio. Altre scosse provocano danni
nell'area reatina ed il 2 febbraio un sisma pari al X grado della scala MCS
provoca migliaia di vittime a L'Aquila e nell'alta valle dell'Aterno. Sono i
luoghi i colpiti nuovamente dalla più recente crisi sismica dell'aprile del
2009, che ha causato danni gravissimi a L’Aquila e nei piccoli paesi limitrofi.
Il capoluogo abruzzese soffre ancora oggi la mancanza di un piano di
ricostruzione, che si è limitato all’intervento post-emergenza, lasciando
sostanzialmente la città in totale dissesto.
di: Giampiero Petrucci(1) Stefano Carlino(2)
1) Ricercatore del GeoResearch Center Italy – GeoBlog (sito internet: www.georcit.blogspot.com; mail: dottgipe@gmail.com).
2) Geofisico dell’Istituto Nazionale Geofisica e Vulcanologia e collaboratore del GeoResearch Center Italy – GeoBlog;
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GeoResearch Center Italy - GeoBlog, 11 (2015), ISSN: 2240-7847.
Nel 1703 un sisma devastante colpisce un’ampia zona
dell’Italia centrale, laddove l’Appennino libera periodicamente la sua
sismicità. Quest’area ha subìto negli ultimi 50 milioni di anni lenti ma
profondi sconvolgimenti tettonici, che hanno trasformato un antico bacino
marino, che separava due grandi placche tettoniche, quella Africana a sud e
quella Euroasiatica a nord, nell’attuale catena montuosa, come conseguenza
della convergenza tra le placche stesse (fig. 1 e 2).
E' ben noto come la geodinamica della catena
appenninica sia caratterizzata dal rilascio periodico di energia sismica, che
si accumula su tempi relativamente lunghi, tipicamente centinaia di anni, prima
di generare forti terremoti. L’energia del terremoto è legata alla dimensione
delle strutture sismogenetiche, le faglie, che nella penisola italiana possono
produrre terremoti anche con magnitudo superiori a 6.0. Le faglie appenniniche
sismogenetiche sono state oggetto di moltissimi studi, per tentare di capire la
dinamica dei terremoti italiani. La cinematica attiva tra la placca Africana ed
Euroasiatica è dimostrata anche dalle misurazioni eseguite con le moderne reti
GPS (Fig. 3), che indicano movimenti della crosta dell’ordine di un centimetro
all’anno. Tuttavia, come risaputo, una previsione dei terremoti è impossibile,
perché i meccanismi che controllano il reiterarsi della sismicità non sono
ancora ben noti, risultano estremamente complessi e non riproducibili
sperimentalmente. Oltretutto, nel nostro paese, le complesse strutture
geologiche, la cinematica ed il grado di segmentazione delle sorgenti
sismogenetiche rendono ancora più tortuoso lo studio della meccanica dei
terremoti.
In questo
contesto tettonico, si verifica la sequenza sismica del 1703, tra la metà di
gennaio ed i primi giorni di febbraio, quando i paesi appenninici sono coperti
da copiose coltri di neve. La prima scossa si verifica nel tardo pomeriggio del
14 gennaio, con un’intensità pari al grado XI della scala Mercalli, ed
epicentro ad est di Cascia, cittadina posta circa 50 km a nord dell’Aquila, la
cui parte alta è interamente distrutta.
I danni maggiori
si registrano poco più a nord, nella cosiddetta area nursina. A Norcia crollano
almeno tremila edifici tra cui una dozzina di palazzi ecclesiastici; le mura di
cinta della città sono parzialmente distrutte ed il 30% della popolazione
perisce in seguito ai crolli. Gravissimi danni si hanno anche a Montereale dove
muore l’80% degli abitanti (fig. 4).
Il sisma colpisce
duramente l’area a cavallo di Umbria e Lazio, con
numerosi crolli nelle
cittadine di Maltignano, Monteleone, Accumoli, Chiavano, Cittareale, Amatrice,
Preci, Antrodoco, Cittaducale, Leonessa, Spoleto, Val Nerina e Rieti. Si
segnalano lesioni e piccoli crolli anche a L’Aquila dove però, in questa prima
fase, non si registrano vittime. Da un punto di vista sismotettonico l’origine
del terremoto viene identificata nel sistema di faglie di Norcia, già in
passato sorgente responsabile di eventi simili. Il sisma causa grande
stravolgimento nei territori colpiti, le colture ed i pascoli vengono
abbandonati, l’ordine pubblico è compromesso, al punto che le autorità
ecclesiastiche (la zona è parte integrante dello Stato Pontificio) sono
costrette a promulgare un lungo coprifuoco.
Figura 4: La diffusione delle intensità macrosismiche
stimate nelle scosse del 14 gennaio e 2 febbraio 1703.
Gli epicentri sono posti
rispettivamente nei pressi
|
Due giorni dopo,
il 16 gennaio, un’altra scossa, con intensità massima dell’VIII grado della
scala Mercalli, provoca ulteriori danni. L’epicentro è localizzato più a sud
del precedente. L’area reatina e l’alta valle dell’Aterno soffrono i danni più
ingenti, mentre a L’Aquila si verificano altri crolli e lesioni. Ben più grave
però è quanto accade nel capoluogo abruzzese il 2 febbraio. La mattina del
giorno della Candelora, quando molti fedeli sono riuniti nelle chiese per la
festività religiosa, un terremoto del X grado della scala Mercalli colpisce la
città, causando almeno tremila vittime, circa il 30% della popolazione.
Moltissime costruzioni, probabilmente già indebolite dalle scosse precedenti,
crollano, mentre circa l’80% degli edifici monumentali subisce lesioni gravi.
Tra questi la chiesa di S. Domenico, dove 800 persone sono sepolte dalle
macerie, la basilica di S. Bernardino e la cattedrale. L’area sud-occidentale
della città, in particolare i quartieri di S. Giovanni e S. Giorgio, è quella
che soffre i danni maggiori (fig. 5). Con epicentro individuato nell’alta valle
dell’Aterno, il terremoto causa gravi danni anche ad Arischia, con 400 morti,
Onna, Pizzoli, Barete, Scoppito, Cagnano, e Castelnuovo. Nella valle
dell’Aterno si registrano anche diverse frane e fenomeni di liquefazione del
terreno (fig. 6).
Il conteggio
delle vittime rimane incerto, ma pesante: ufficialmente si registrano 10.000
decessi, ma è probabile che questa stima sia stata eseguita per difetto. Il
sisma viene chiaramente avvertito a Roma dove circa duemila edifici (tra cui S.
Pietro, Colosseo, Mura Aureliane e Cappella Sistina) subiscono lesioni di varia
entità, mentre la popolazione fugge nelle campagne, sollecitata anche da voci
di popolo circa una presunta apparizione della Madonna al Papa Clemente XI, che
sarebbe stato informato di una prossima fine della città. Gravi episodi di
sciacallaggio si verificano per tutto il territorio colpito dal sisma e i
governanti faticano sia a mantenere l’ordine pubblico che a impegnarsi negli
aiuti. Il Papa sospende per i successivi dieci anni il pagamento delle tasse,
ma non eroga fondi a favore delle città colpite. Gli aiuti economici limitati e
lo scarso interesse nella ricostruzione dei territori colpiti saranno alla base
del parziale spopolamento di L’Aquila, che per un decennio continuerà a vivere
in una situazione economica ed edilizia precaria. L’evento, inevitabilmente,
rimarrà a lungo nella memoria collettiva degli aquilani, ed avrà ripercussioni
di lungo termine anche sulla cultura popolare. A seguito di questi eventi
drammatici saranno infatti modificati i colori cittadini, non più bianco e
rosso, ma nero, a segnalare il lutto, e verde, la speranza. Cambieranno anche
alcuni costumi sociali come il carnevale aquilano che non inizierà più, come da
tradizione, prima della Candelora.
Una sequenza
sismica, quella del 1703, che riconduce inevitabilmente a quanto accaduto con
il terremoto del 2009 (fig. 7), quando a fronte di un intervento efficace in
fase di emergenza, si verificherà l’assenza di piani esaustivi per la
ricostruzione del centro storico aquilano. L’Aquila appare oggi come una città
senza tempo. La mancata programmazione sul lungo termine per la ricostruzione
del capoluogo abruzzese ha determinato l’abbandono della città, con interventi
che si sono limitati alla messa in sicurezza delle strade e allo sgombero delle
macerie. Un tentativo di ricostruzione, partito in ritardo, ha privilegiato le
periferie e poche strade del centro, creando un confine di diseguaglianza e di
malcontento. Anche la famigerata new town,
che in parte è già in rovina (per la pessima qualità dei materiali utilizzati),
si è dimostrata un totale fallimento. Gli avvenimenti legati alla ricostruzione
post-sisma del 2009 di L’Aquila rappresentano certamente il peggior esempio di
gestione programmatica di un territorio, le cui ferite inferte sono ancora
aperte. Tra slogan elettorali e promesse politiche hanno prevalso le logiche
del profitto personale e il malaffare, lasciando una città in cui i centri
commerciali, invece delle piazze monumentali, sono diventati i nuovi luoghi di
aggregazione. Ad oltre sei anni dal terremoto, i cittadini attendono ancora di
conoscere il destino della città.
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